Dump di cose viste, pensate e riferibili dopo una giornata di voli

In un bar dento all’aeroporto di Venezia che si chiama “Culto”, ma potrebbe accadere in un qualunque altro bar del Marco Polo, chiedo una spremuta d’arancia e la tizia dietro il bancone mi comunica risoluta: “non c’è”. Proprio a muso duro, senza un “mi spiace” o spiegazioni, e con tanto di macchina spremiagrumi bianca e arancione (e gigante) alle spalle.

Non ho ancora capito se questa mancanza di sorrisi professionali – come li chiamava DFW – o insomma di moine verso il cliente, sia un segno di maleducazione o piuttosto di onestà nei rapporti umani. Forse è solo Mestre.

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Di fianco a me una ragazza bassa e grassoccia fa al suo ragazzo, anch’egli tracagnotto: “amore: è il nostro primo aereo insieme”. Lui bofonchia qualcosa distratto.

È che non ci rendiamo conto di quanto siamo spietati! Scusateci tutte – ragazze passate, presenti, future e possibili.

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Ogni volta che viaggio mi pare di essere l’unica persona educata e a modo dell’intera classe economy dell’aereo.“Educazione: sopra la classe economy” (fa già ridere così).

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Voglio scrivere il racconto di uno che, morente, vuole venga tolto il crocifisso dalla parete della stanza in cui alloggia (potrei metterci dentro un’infermiera stronza che si rifiuta).

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Chi nel “ciascuno muore la propria morte” di Heidegger vede una tautologia lo penserebbe anche di una frase come “ciascuno muore l’ora ed il luogo della sua morte”. Ma per confutarlo basterebbe fargli ascoltare Samarcanda di Vecchioni.

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Vicino a me c’è una famiglia veneta, madre e padre con figlie grandi. Non brillano, specie il padre ha qualcosa di stupidotto. Ma hanno modi gentili, l’educazione è tangibile. La piccola borghesia veneta non andrà all’inferno per questa volta.

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È chiaro perché i filosofi in tv, ad esempio gli ormai attempati Cacciari e Galimberti, hanno sempre la cantilena della lamentela – o quando va bene della perorazione disperata. È la senescenza: non c’è nessun contenuto dietro che tenga. Sono solo vecchi.

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Sugli schermi dietro i posti in aereo scorgo un paio di Harry Potter e un film di supereroi. La vicina guarda una cosa da teenager, presumibilmente strappalacrime: storia di lei costretta a girare con bombola e tubi per l’ossigeno, e di lui specie di boy scout romantico che la corteggia oltre ogni difficoltà.

Chissà perché tutti hanno bisogno di storie edificanti, di buoni sentimenti: dei buoni. Può essere che al fondo di tutti noi ci sia la legge morale come scriveva Immanuel Kant, e persino la bontà. O forse che il mondo è spietato e ogni tanto bisogna prendere una boccata d’ossigeno in forma di bontà finzionale.

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Io da buon disadattato tengo Google Earth con la posizione dell’aereo aggiornata in tempo reale, e tutti gli inutili dati di volo. Perché è sempre un piacere sottile metterci le mani e dire “ah dai la regione del Rio Grande è qua” (roba da garibaldini) o “chissà di quand’è questa foto del lago Aran” (il lago sta scomparendo).

Datemi Google Earth e per me sarà sempre il 2004 o giù di lì.

SanPa ed il Trolley problem

Qualche anno addietro mi sono imbattuto nel servizio finale di una trasmissione d’inchiesta del 1980 intitolata Eroina SpA, a cura di Giuseppe Marrazzo detto Joe, giornalista temerario (leggere: millenovecentottanta, mafia) e un po’ sopra le righe, peraltro padre dello sciagurato Piero.

Un video crudo, fatto di adolescenti o poco più che vagano per il centro di Verona di modo da svoltare i due o tre schizzi della giornata. Per nulla aggressivi, abbastanza disperati e quasi timidi spiegano al giornalista la piccola economia dello spaccio per far saltar fuori una dose in più, ma anche il risentimento per esservi finiti dentro a questa storia della tossicodipendenza. “No stemo darghe e colpe aea fameja, se a semo cercada noialtri”. Joe, che se la prende davvero a cuore, dapprima si schifa ma in seguito, più volte, praticamente li abbraccia. Poi sporcizia varia, zombie che vanno e vengono e lunga soggettiva finale sul braccio di un tizio che si fa una pera. Il tutto attorno all’antico pozzo di una piazzetta; un pezzo di quello che oggi chiamiamo con venerazione da wannabe centro storico e ci fa venire in mente un salotto bene.

Per quanto mi riguarda l’accento veneto conferiva a quei ragazzi una certa tridimensionalità – ciascuno è toccato maggiormente da quel che conosce – scatenandomi la domanda se alla fine siano più le scelte consapevoli o il caso a far sì che in certi periodi della vita ci si trovi a frequentare territori pericolosi, ma senza in ultimo – diciamo così – prendervi residenza. Una domanda retorica e nondimeno senza risposta, tanto da renderla angosciante e fascinosa allo stesso tempo (come sa bene Nicola Lagioia che vi ha ritagliato sopra La città dei vivi).

Guardando SanPa, la prima docuserie italiana di Netflix, quel servizio è la prima cosa che mi è venuta in mente. Per l’ovvia comunanza del tema, ma soprattutto per la capacità di dar conto di cosa fosse quel problema ancor prima che a qualche istituzione venisse in mente un cazzo di modo, nella pratica, di gestirlo.

Gli inizi – romantici per definizione – raccontano di un Muccioli intraprendente. Un figlio della borghesia agraria riminese che prova alcune sortite nel turismo e poi nell’allevamento, lì dove i suoceri hanno regalato a lui e alla moglie un’azienda agricola. San Patrignano appunto. Poi incursioni nello spiritismo con qualche amico e la coda di queste esperienze che si trascina fino alla fondazione di una delle prime comunità di recupero per tossicodipendenti in Italia. Nessuno l’ha notato, ma quei suoi baffoni originali un rimando a Gurdjieff e all’esoterismo pur lo suggerivano. Niente di troppo strano, alla fine. Basti pensare, ad esempio, che una parte del business di Scientology risiede tutt’ora nel recupero dalle droghe, e la loro prima comunità italiana “Narconon” nasce nel 1981. Mentre “Saman” di Mauro Rostagno, passato da Lotta Continua agli insegnamenti di Bhagwan Shree Rajneesh (più tardi detto Osho), viene fondata già un anno prima: con la cronologia, ma anche in qualche modo con gli interessi – e stiamo tralasciando i preti – siamo lì. Né può del resto stupire che il carattere settario aleggi fastidiosamente in alcune testimonianze su SanPa.

L’incontro fortunato avviene con Gian Marco Moratti, il quale diverrà sin da subito, per quanto si capisce, il vero sponsor economico di tutta l’impresa. Ma il dominus resterà sempre lui: Vincenzo Muccioli. Personaggio autoritario ma indubbiamente autorevole lì dentro; carismatico, magnetico e paterno. Ma anche uno che lancia strali contro la psicologia pur non essendo mai riuscito a prendere un diploma al liceo. “Vincenzo era la terapia” dice uno degli ex ospiti, e questa terapia era fatta di abbracci e di schiaffoni: efficace per chi non aveva ricevuto abbastanza degli uni o degli altri. Ma era fatta anche di catene.

E proprio da queste catene si originerà il primo processo contro di lui ed i suoi collaboratori dei primi tempi, per sequestro di persona. Una ragazza scapperà e andrà dritta dai Carabinieri di Forlì a dire che alcuni ragazzi vengono tenuti coi ceppi alle caviglie all’interno di baracche. Di fatto un “rimedio” per i casi difficili. Di qui la carcerazione preventiva di Muccioli e la successiva liberazione vincolata all’impegno di non ripetere quelle pratiche; impegno che, manco a dirlo, verrà disatteso. Attorno al processo prenderà forma il solito circo Barnum della comunicazione: i giornali, le televisioni, alcuni celebri testimoni della difesa (che avevano un figlio nella comunità), le madri disperate che guardano a Vincenzo come al Messia, Red Ronnie autoproclamato “soldato di San Patrignano” (vedi i soldati di Cristo dell’Opus Dei) e i coniugi Moratti che forse trovano in quella battaglia un senso alle loro esistenze – tanto da apparire come i primi adepti di un nuovo credo. E ovviamente la polarizzazione delle opinioni tra Guelfi e Ghibellini in un’Italia che pur priva di Twitter era già in grado di dare nelle semplificazioni il peggio di sé.

Notevolissimo e sconcertante l’intervento di Paolo Villaggio – e si badi che stiamo parlando di un genio – che dirà delle sberle di Muccioli come “date da mani sante”, “quelle sberle che non abbiamo dato noi padri progressisti”. Villaggio, ovviamente, aveva anch’egli un figlio a SanPa.

Poi la fama di Muccioli che va alle stelle, la comunità che cresce in modo ipertrofico e la conseguente cessione di potere – e di metodi – ai collaboratori più vicini, tutti ex tossici. Finché non ci scapperà il morto, con tanto di occultamento di cadavere, ed un conseguente nuovo processo. Nel frattempo alcuni suicidi tra gli ospiti, l’irrompere dell’AIDS e di qualche faida interna alla comunità. Ma in cotanta confusione lo stesso Vincenzo verrà a mancare, a causa di una malattia mai chiarita ma molto più che adombrata come AIDS.

Ora, alcune questioni possibili a me pare siano: come giudicare chi ha delle responsabilità dirette nel salvataggio di molte vite, ma parimenti sembra averne per almeno una morte? Quanto contano le intenzioni – il fare del bene, ma anche la fama – e quanto contano i risultati – il conteggio dei successi e dei fallimenti? E per fare del bene – mettiamo – è giusto andare contro delle leggi che pur sono giuste, che dicono ad esempio di non sequestrare e di non rapire (ad esempio chi scappava dalla comunità) come era in uso fare a San Patrignano?

Nell’ambito della filosofia analitica americana è stato creato un celebre esperimento mentale, che va sotto il nome di trolley problem, la cui formulazione migliore è pressappoco questa: immagina che un carrello ferroviario stia andando ad investire cinque persone bloccate sui binari; di fianco a te c’è un grassone che se lo spingi sotto il carrello finirà per fermarlo; in tal caso egli morirebbe ma le altre persone si salverebbero; che fai? Spoiler: non c’è soluzione. O meglio, se l’etica è il tentativo razionale di vivere bene, qui la scelta del giusto è davvero irrisolvibile. È ingiusto attivarsi in prima persona per uccidere un uomo incolpevole, ma la cosa inquietante è che è ingiusto persino non fare niente e lasciarne morire cinque.

(Devo dire però che la soluzione più convincente me l’ha fornita un’amica insegnante, che aveva proposto il dilemma in forma di gioco ad una classe delle scuole medie; un ragazzino – russo, manco a dirlo – aveva risposto “mi ci butto io: non li salverò ma almeno poi non mi sento in colpa”)

Insomma anche la vicenda di SanPa, alla fine, sembra avere dei tratti che sono essenzialmente inestricabili. E qui, come in altre produzioni, sta il merito di Netflix: guardare le cose dall’alto, da lato e dall’interno, ma senza mai emettere un giudizio. Non accontentarsi di una logica binaria per cui è tutto o bianco o nero, ma proporre piuttosto un’infinita scala di grigi all’interno dei quali far muovere lo spettatore. “Di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere” scriveva il primo Wittgenstein. Ma invece no: a guardarci dentro se ne ricavano delle ottime docuserie.

Primo maggio e censura, prospettiva minima

Di fronte ad uno scazzo tra genitori e figli, io, che son solo figlio, istintivamente tengo per i genitori. Per una ragione ovvia che ha a che fare con l’asimmetria delle responsabilità: quella dei primi include anche l’agire dei secondi, ma non il contrario.

Allo stesso modo nella querelle tra funzionari Rai e Fedez – che pur è genitore – non ho potuto non provare un moto di solidarietà verso i primi, seppur con tutta la mediocrità dei loro argomenti. Una mediocrità paternalistica, appunto. Provate a fare il confronto tra ammonimenti come “non è il contesto adatto” e “non puoi venire in Chiesa coi bermuda”, o tra “c’è un sistema” e “non drogarti”, e scoprirete che non si parla poi di cose tanto diverse. O meglio: la semantica è diversa, ma la pragmatica è la stessa. In entrambi i casi l’attenzione è sui possibili effetti, che siano le polemiche della politica o i parenti che parlano male. “Non sono solo cazzi tuoi”, insomma.

Infine, ma questa volta dal lato filiale, provate a guardare sotto questa lente l’urlo”Io sono un artista!” e tentate l’equazione con “sono un ribelle mamma!”, il risultato sarà ancor più d’effetto.

Adriano Panzironi. Sul complottismo ed i nerd (prima parte)

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Ho una perversione, tra le altre: trovo le trasmissioni di Adriano Panzironi ipnotiche. Forse quanto di più ipnotico contro cui ci si possa imbattere. Vanno in onda agli orari e sulle reti locali più improbabili, e giocano sul confine sottile tra la trasmissione di (finto) approfondimento scientifico e la televendita. In esse regna una concordia delle argomentazioni riscontrabile tale e quale presso un credo o una setta. In un’epoca di litigi scriteriati è indiscutibilmente da quest’aura armoniosa che sento arrivare una specie di piacevole massaggio ai miei lobi temporali.

I titoli dei format, inoltre, sono massimamente promettenti: “Il cerca salute”, “5 mesi per rinascere”, “Vivere 120 anni”. Quest’ultimo, che poi è un libro, ha come sottotitolo “le verità che nessuno vuole raccontarti”. Chi è un minimo avvezzo a questo tema sa già che ci troviamo in casa del complottismo. Ma partiamo dall’inizio.

Adriano Panzironi – scrive Wikipedia – è un giornalista pubblicista, noto per essere l’ideatore di un regime alimentare denominato Life 120, privo di validazione scientifica. Il metodo ha la sua massima nella demonizzazione dei carboidrati, prevedendone l’esclusione categorica dalla dieta. Comporta poi un utilizzo costante di integratori a base di spezie e vitamina C, che sono messi in commercio dalla società che il nostro ha fondato assieme al fratello (scrive ancora Wikipedia che il costo stimato annuo per persona di questi Orac Spice – così si chiamano –  si aggira attorno ai 3mila euro).  

L’azione del metodo è one size fits all, per dirla col titolo di un album di Frank Zappa. Sistemerebbe insomma un po’ tutto, almeno stando alle testimonianze mandate in onda: dal diabete alle emorroidi, dalla gastrite alle allergie, dalle emicranie agli acufeni, prevenendo – nientemeno – che il Coronavirus; l’argomento uno-tutto si trova altrove tra i paladini delle macchinazioni oscure: Stefano Montanari, già sdoganato da Grillo – e in un certo senso un’autorità nel mondo dei complottisti italiani, attribuisce alle nanoparticelle inorganiche che trova un po’ ovunque col suo microscopio, dai tessuti umani agli alimenti, l’insorgere dei mali più diversi e brutti (recentemente ho visto un video dove chiedeva donazioni per indagare la correlazione tra queste e – di nuovo – il Coronavirus).

In ogni teoria del complotto c’è sempre un sostrato politico. L’argomento è che la “medicina ufficiale” (locuzione utilizzata spesso da Panzironi) sta facendo i soldi a spese della nostra salute; al solito ci sarebbero verità scomode che non ci vengono dette, perché, su in alto, sono tutti d’accordo. Personalmente mi stupisco sempre di come i complottisti non si avvedano che sia il loro mentore a fare davvero i soldi nella storia di turno. Infatti sempre Wikipedia riporta che Panzironi ha fatturato attraverso le sue società, solo nel 2017, qualcosa come 7,7 milioni di euro, e, per quanto non mi sia dato saperlo, immagino che lì dentro ci sia una bella fetta di utile. Fin qui ha preso multe dall’Ag.Com per oltre 700mila euro ed è attualmente sotto processo per abuso della professione medica: rischia dai 6 mesi ai 3 anni di carcere ed una multa dai 10mila ai 50mila euro. Poca roba, a mia impressione. E poi il processo ad un complottista è sempre una situazione Win-win: se mai vincesse gli verrebbero riconosciute le proprie ragioni, perdendo sarà colpa del sistema; persino un pareggio si trasformerebbe interamente in una vittoria.

Tuttavia una parte di me resta ipnotizzata, dicevo, e non manca di accordargli una qualche benevolenza. Si tratta di un sentimento pre-morale che non passa – per dire – dalla considerazione che in fondo molte ricchezze personali del presente, che riconosciamo come legittime, sono frutto di qualche abuso di ieri. No. Ha a che fare piuttosto con il fatto che in lui riconosco il nerd: l’improbabile capello lungo, la magrezza ai limiti dell’emaciato, la perseveranza con la quale ha fatto proprie informazioni mediche per poi rimetterle giù per suo ritorno economico, la naturale mancanza di empatia verso i vecchi lì a testimoniare come Life 120 abbia cambiato loro la vita (nell’evento all’Eur della foto sopra ad un certo punto fa un giro tra il suo pubblico per stringere mani e farsi abbracciare, eppure un fondo di schifata ritrosia glielo si vede ancora bene in faccia: io quel fastidio lo rispetto perché è puro nerd).

A scuola me lo vedo in fila alla macchina delle merendine e subito bullizzato da qualcuno di più grande che lo sopravanza. Ma bene lo sappiamo noi adesso, e dovremmo dirlo ai nostri ipotetici figli, che se proprio non diventeranno loro stessi nerd, almeno abbiano cura dei nerd che li circondano. Perché di loro è il regno del lavoro domani (e per certo già oggi.) Oltre che – va da sè – il successo.

continua…

Cose che ho pensato in quarantena

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Che sono un lungo tubo digerente.

Che questa è la nuda vita di cui scriveva Hannah Arendt, fatta di sussistenza e bisogni primari.

Che si vive da ospedale anche fuori dagli ospedali.

Che tutti hanno più chiaro cosa siano gli arresti domiciliari.

Che non ho mai suonato così tanto la chitarra da quando ero adolescente.

Che l’indefesso parlare di calcio in un periodo di vuoto pneumatico dice più dei bisogni dei giornalisti sportivi che di quelli del pubblico.

Che le dating app si sono svuotate della loro ragione d’essere.

Che le pubblicità che tentano di instillare senso di comunità e sentimentale coraggio mi gettano nello sconforto.

Che gli entusiasmi finiscono presto.

Che le iniziali videochiamate di gruppo ed il risentire vecchi amici si sono girati presto in pura accidia.

Che vorrei un cane.

Che la religione non serve più e la scienza gliele ha date di santa ragione.

Che mi stupisco che una vicenda della Palestina di duemila anni fa abbia prodotto delle chiese – per dire – in Islanda.

Che non voglio invecchiare e buttare via uno o due anni così.

Che nessuno sa invecchiare.

Che è per questo che DFW si è ammazzato.

Che vorrei essere seppellito nella fossa comune di New York. “Sprofondarmi a testa prima dentro un assoluto anonimato” scriveva Sanguineti.

Che la gente nelle difficoltà diventa peggiore.

Che l’arabo che mi ha ruttato in faccia mentre tornavo dal supermercato ha colto nella sua essenza lo zeitgeist.

Che a correre con la mascherina e i guanti non ci vado.

Che sono finiti i flash mob dai balconi, ma suppongo che in Veneto non fossero mai iniziati.

Che le persone hanno imparato a fare la fila.

Che la gente si abituerà a fare palestra a casa anche quando le palestre riapriranno.

Che i baci sulla guancia verranno abbandonati per la gioia di noi riottosi.

Che tutto ciò che la tecnica può fare verrà fatto, anche in senso demografico.

Che il consumismo è venuto  dopo la salute pubblica.

Che non sussiste divisione tra vita privata e lavoro.

Che non potrò andare a New York.

Che voglio tornare in Russia.

Che leggere un libro di viaggio mi ha dato un’insperata, per quanto temporanea, tranquillità.

Che mettere sul piatto un vinile ogni santo giorno mi fa ricordare uno per uno i dischi che ho acquistato.

Che è comodo ordinare una cassa di birra su Amazon.

Che ho pensato poco.

Cose che possono capitare, almeno a Mosca

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Vedere una signora mangiarsi tutta una mela, compreso il torsolo, rimanendo alla fine a succhiare il picciolo (era seduta di fianco a me in aereo).

Essere l’unico italiano dell’aereo sia all’andata che al ritorno. Almeno se voli con una low-cost del gruppo Aeroflot.

Sentire ancora applaudire agli atterraggi. Un tempo ero snob e dicevo “guarda come siamo presi”; lì ne ho avuto nostalgia.

Arrivare in un aeroporto largamente inutilizzato, con sale di attesa completamente sgombre. Magari non come in Corea del Nord – dove ben mi guardo di andare, ma è per dare l’idea.

Farsi venire a prendere da un tassista che non riesce a pagare il parcheggio. “One apparat all the airport!”. Che poi scrive e registra messaggi vocali tutto il tempo del percorso.

Trovare dei bancali a coprire le buche nei marciapiedi e camminarci sopra.

Vedere tra lo skyline un caldaione sovietico che dà acqua calda a tutta la città. La guida di un tour del centro ha detto che si poteva anche visitare, domandando. Io non ci sono riuscito. La Lonely Planet neppure lo menzionava. L’essenziale è fuori dalle guide.

Vedere solo macchine straniere e scoprire che le Lada ormai sono delle mosche bianche.

Vedere un po’ ovunque ragazze con a seguito fotografi per farsi dei book.

Entrare in stazioni della metropolitana bellissime, con dei marroni piastrella o dei verdi oliva fuori dal tempo, senza alcun segno di vandalismo.

Incrociare gente che autonomamente si mette a rastrellare erba nel parco – ho visto una signora al VDNH! – o grattare cragna dalle scale pubbliche.

Scambiare sguardi musoni un po’ con tutti. È normale.

Ordinare una zuppa fredda, solo d’estate. Quella che ho preso io si chiamava Okroshka. Molto buona.

Mangiare spesso agrodolce.

Conoscere un tizio di Dubai ignorante come la merda che ha appena fatto il tour di Chernobyl e che insiste a dirti “it’s safe, it’s safe”.

Vedere un po’ ovunque ragazze belle ed elegantissime nel portamento, dal viso simmetrico e dai seni proporzionati.

Trovare nei posti pubblici tanti bambini, abbastanza selvatici e poco seguiti. Le madri sono sempre  molto giovani. I mariti muoiono presto mi è stato detto.

Entrare per sbaglio in una chiesa ortodossa e vedere una loro funzione sentendosi un etnologo o un antropologo.

Parlare con chiunque di Dostoevsky. Beh, insomma, con chi parla inglese.

Salire su una riproduzione della stazione spaziale orbitante MIR. Quella che quando l’hanno fatta schiantare in mare a Studio Aperto dicevano “state attenti, mettetevi sotto un muro portante”.

Imparare che i russi a parte l’uomo sulla Luna  hanno fatto un po’ di tutto prima degli americani nello spazio.

Chiedere ad una ragazza a cena se ha mai volato su un Tupolev e farsi guardare con infinita compassione.

Chiamare i taxi con Uber o con dei competitor ancora più convenienti e professionali spendendo cifre ridicole.

Incocciare ovunque contro dei food deliverer.

Scoprire che hanno un sacco di immigrati interni, dagli occhi a mandorla che diresti mongoli, provenienti da ex repubbliche sovietiche.

Fare foto da un taxi e ottenere senza chiederlo che il taxi rallenti. Tu dici: lo faranno in vista di una mancia. Cerchi dunque di lasciare una mancia e poi la rifiutano, senza sdegno.

Trovare fiori un po’ ovunque.

Trovare bagni pubblici un po’ ovunque, tenuti più che decorosamente.

Aspettare il prossimo convoglio in metropolitana al massimo due minuti. Non ha senso correre.

Vedere una pulizia delle strade che è davvero una pulizia delle strade.

Salire a bordo di taxi con guidatori caucasici che vanno come dei pazzi.

Camminare un sacco per raggiungere il posto dove devi andare anche se dalla mappa la stazione della metro sembrava vicina.

Non capire mai qual è il verso giusto con cui si aprono le porte.

Impiegare giorni solo per ricordare come ci si saluta formalmente. “Zdravstvuite” comunque.

Vedere gente bere spritz Aperol.

Dire di essere italiano e sentirsi immediatamente stimato (no, davvero: dove altro capita?).

Conoscere gente che ti consiglia di andare in Siberia. Nessuna facile battuta, è che proprio dicono tutti sia meravigliosa.

Sentirsi dire che si sentono molto simili agli italiani. E probabilmente hanno ragione.

Arrivare a tanto così dal farsi venire la russofilia.

La cognizione del dolore, quello fisico

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Qualche mese addietro ho scoperto che esiste il dolore fisico intollerabile. “Bravo mona”, diranno subito i miei piccoli lettori. Eh, già. Credevo ingenuamente alla considerazione epicurea per cui il dolore è sempre sopportabile, perché, allorquando diventasse davvero insopportabile, noi cesseremmo di essere. Ahimè io c’ero ancora. E, a labbra strette, bestemmiavo.

In breve: all’alba dei quarant’anni mi sono iscritto ad un corso di snowboard; la seconda domenica, peraltro a fine giornata, illuso da una certa confidenza mi sono schiantato al suolo sbattendo rozzamente la spalla destra. Ho rimediato una frattura alla testa dell’omero – “ingranata”, mi hanno detto – , un’operazione,  cinque giorni di ospedale e una piastra con delle viti a tenere tutto insieme.

Glisserò sulla mia ipocondria, il fastidio per gli aghi (ne avevo due attaccati, come porte USB per le flebo), la mia inclinazione agli svenimenti, e su tutte le difficoltà psicofisiche conseguenti  – che meriterebbero un racconto a sé. Piuttosto, tento qui di mettere giù quel poco che ho potuto vedere, e magari capire, dalla visuale privilegiata (si fa per dire) del paziente operato, sacramentante, che se ne sta in un reparto in cui alloggiano prevalentemente anziani.

I vecchi, appunto. Quelli che quando dormono sembrano morti, come dice Hemingway. Prevalentemente persone che avevano subito un infortunio in casa ed ora si ritrovavano immobilizzati al letto, con tutto quel che ne consegue. Roba “pulp, molto pulp” come diceva un comico anni novanta; ma con meno sangue. Le ossa rotte, ad una certa età, sono un bel problema.

Quando dormono, dicevo. Perché, generalmente, non dormono. Specie le anziane si lanciavano in infiniti monologhi a voce alta, lamentele, giaculatorie, richieste d’aiuto, invocazioni a vari santi del calendario, minacce di fuga ed enunciazioni di fantasiose intenzioni suicide. Per lo più flussi di coscienza di persone sole, che s-ragionavano. Dato il contesto si verificavano poi delle dinamiche di gruppo: ai primi sfoghi seguivano le repliche piccate di chi voleva dormire, allora gli sfoghi si facevano più veementi e inesorabilmente da qualche stanza vicina, ridestate, pativano le urla di una nuova dannata.

Ora, va da sé, vi capitasse di avere a che fare con gente iraconda, che prende la vita come una faccenda maledettamente seria, fategli fare un giretto in ospedale. È sufficiente una visita al reparto ortopedia, per quanto esista ben di peggio.

Il dolore, allora. Un’esperienza a cui partecipa tutto l’essere, che per quanto mi riguarda  – ipoteticamente – avrebbe dovuto limitarsi ad una parte, ma che nella realtà travasava in uno stato mentale: quello dell’impotenza data dal subire. Me ne è derivata addirittura una visione del mondo, smaccatamente  pessimistica, che ancora a distanza di tempo non riesco a levarmi di dosso.  Basterebbe questa stupida esperienza a disfare tutti gli ingenui dualismi mente/corpo. Insomma dolore del corpo e persino fuori dal corpo. Mi viene in mente Merleau-Ponty che scriveva che sentiva bruciare le dita che reggevano la pipa anche all’uomo che vedeva allo specchio.

Ancora, nel dolore se ne scompare qualsiasi oggettivazione di una parte all’interno del tutto. Con un braccio rotto qualsiasi altro movimento implica lo stringere i denti perché ogni pezzo, per quanto integro, alla fine è schifosamente vincolato a tutto il resto. Di certo si tratta di correlazioni fisiologiche, ma più di tutto, di nuovo, è il dolore che ne è l’esperienza unificante.

Infine la questione religiosa. Può ben essere che al sofferente, per quanto distaccato, si riaffacci la fede (magari non allo scrivente); ben lo sapeva Garibaldi che nelle ultime volontà aveva interdetto il surrettizio accesso  di un prete al suo letto di morte. Del resto già i crocifissi ai muri, anche svincolati da qualsivoglia significato simbolico, dispongono ad un vago ristoro dato dal mal comune mezzo gaudio.

Ma più di tutto credo vi sia un tratto comune, sempre nel dolore, che probabilmente tanto ha convinto i primi cristiani. Il dolore dispone drammaticamente alla non progettualità, all’inazione. Io ben me li immagino questi poveracci dei primi secoli accesi alla nuova fede. Gente che se la passava male, molto male, di botto giustificata a non occuparsi più delle cose terrene: che il regno dei cieli era vicino. “Il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero”. A pensarci bene San Paolo l’ha vinta davvero facile.

Paris CDG

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A dicembre sono andato in Islanda facendo tappa – tecnica, come si dice – a Parigi. Provenivo da Venezia e sarei arrivato a tarda sera a Charles De Gaulle, per poi partire a metà mattina del giorno successivo per Reykjavik. Sebbene non avessi alcuna aspettativa da un passaggio così interlocutorio, considerando per altro che non ci sarebbe stato il tempo per fare altro che andare in hotel, dormire e tornare indietro, mi sono trovato quasi involontariamente a registrare una manciata di aspetti più o meno originali relativi al contesto.

In primis: tutto funziona meravigliosamente; lo so, sembra il solito commento dell’italiano disfattista e provinciale – e probabilmente in parte lo è – ma davvero, se arrivi dalla periferia dell’impero certe cose le noti. Parlo di logistica e trasporti. Paris CDG si compone di tre terminal posti a distanze dispersive ma perfettamente raccordati da una metropolitana –  CDGVAL – che vi fa continuamente la spola, includendo  nel percorso anche qualche parcheggio. Va da sé che non si paga alcun biglietto. Se poi alloggiate nel circondario, come è capitato senza grande impegno di ricerca a me, vi è sufficiente recarvi al quinto piano del terminal due e aspettare il bus che fa il giro degli hotel. Anche qui nessun biglietto da pagare, idem per il viaggio di ritorno. Ho dormito in una catena un po’ da poveri chiamata “hotelF1”, roba da 30 euro a notte per doppia uso singola con un bagno in comune (fatto principalmente di plastica); l’hotel affaccia su una piccola piazza condivisa con Ibis e Novotel e interdetta al traffico dei non clienti, con in mezzo la banchina per l’autobus e gli stalli per le macchine: nessun altro orpello se non la praticità di farti dormire e riportarti in aeroporto.

La caratteristica assieme straniante e affascinante è che tutto ciò che si vive o si attraversa per chilometri non è altro che un gigantesco nonluogo. Nonluogo è la fortunata definizione di Marc Augê per i posti di passaggio, frequentati ma privi di tradizione, dove la gente propriamente non ‘abita’ (per quanto vi possa comunque dormire, vedi gli hotel) o non stabilisce grandi relazioni. Insomma aeroporti, stazioni dei treni, autogrill, centri commerciali e compagnia cantante. Qui naturalmente è tutto in funzione dell’aeroporto. Per rendere l’idea: non si vede una villetta o  un appartamento con un vaso di fiori sul pergolo; sembra di stare in una specie di quartiere ideale separato dalla vita, una grande sala d’attesa iper-funzionale, un limbo. Per certi versi è un’affascinante esperienza di premorte che in me ha suscitato un’inattesa pace dell’animo. Insomma è la vertigine del nonluogo, e dà una certa soddisfazione viverla a casa dell’autore che ha coniato il fortunato neologismo.

L’aspetto poi che salta agli occhi è che nei terminal aeroportuali c’è una certa stratificazione di stili architettonici, un po’ come alcune basiliche romaniche nelle quali nel tempo sono state ricavate delle bifore gotiche e aggiunto un altare barocco. Qui si tratta di un discorso brutalista sviluppato lungo gli ultimi trent’anni del novecento. Si parte dal terminal uno, più vecchio e dunque più  avveneristico, con la sua pianta ad octopus e le curvature spavalde del cemento armato (il Concorde non poteva atterrare che qui, perché rappresentava parimenti un’idea di futuro che non c’è più), passando al  terminal  due, dotato di  maggiore luminosità con le ampie vetrate e le linee più spigolose ed essenziali, sino al tre che ne è la derivazione posticcia. Nel mezzo di questo trionfo cementizio ho trovato l’indicazione happiest place on earth, che suppongo rimandasse ad  un ristorantino: mi ha davvero fatto piacere fosse qui.

Da ultimo ho visto parcheggiato fuori da un hangar un paio di aerei con livrea Republique Francaise, due Airbus ovviamente. Ricordate la stucchevole polemica sull’Air Force Renzi? Ecco, io mi chiedo: perché mai le istituzioni italiane, pensiamo al povero Sergio Mattarella (che Dio ce lo conservi), non dovrebbero volare con uno straccio di aereo con su scritto Repubblica Italiana, considerando che pure i Led Zeppelin ne avevano uno marchiato Led Zeppelin e persino gli Iron Maiden – provate a indovinare – ne hanno uno con scritto sopra Iron Maiden?

 

Leaving Neverland ovvero del non accettare caramelle dai troppo conosciuti

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È andata in onda su Nove la prima puntata di Leaving Neverland, la breve docuserie di HBO costruita sulle testimonianze di due ex bambini abusati tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta da Michael Jackson, Wade Robson e Jimmy Safechuck.

Tralasciando qualche debolezza come l’insistere sulle reazioni emotive dei testimoni (e qui il doppiaggio italiano non aiuta) e prendendo per buono quello che è il loro racconto al di là delle polemiche tra la Jackson Family e la produzione – limitandoci in altre parole alla verosimiglianza dei fatti narrati –  io trovo che gli aspetti più interessanti nascano dagli elementi di contesto, dal mondo late eighties che appare sullo sfondo. Un mondo privo di internet e di telefoni cellulari, la cui semplice esistenza, lo dice anche la madre di una delle due vittime, avrebbe probabilmente   reso più arduo lo svilupparsi di questa piccola epopea pedofila. E un mondo parimenti dove la musica non ancora dematerializzata produceva fenomeni di fanatismo rispetto ai quali ora è difficile trovare un omologo.

C’è poco da spoilerare considerando che come atteso Michael finirà per avere rapporti inappropriati e ripetuti con almeno i due testimoni. L’elemento inatteso e disturbante però risiede nella fiducia con cui le famiglie Safechuck e Robson consegneranno progressivamente i figli alla star, consentendo loro  di dormire assieme al grande idolo (al tempo ultratrentenne) e lasciandoli soli per più giorni a Neverland o in qualche altro appartamento.

Jackson, infantile per molti aspetti, entrava in empatia tanto coi piccoli che con le famiglie. Appariva debole e solo, e probabilmente lo era. Faceva sentire le sue controparti, specie Wade e Jimmy, quali i suoi unici amici. Tempestava di chiamate e fax i bambini e le famiglie,  e a quest’ultime fece vivere un sogno transitorio di celebrità e ricchezza. Spesso si autoinvitava a casa dei Safechuck, famiglia piccolo borghese americana qualunque, e restava lì a dormire. Quanto ai Wade – per dire – finì per spezzare in due la famiglia, australiana d’origine, facendo sì che madre e figli si trasferissero negli Stati Uniti.

È straordinario come una puntata di South Park del duemilaquattro avesse messo in scena con tanta precisione tragicomica la psicologia dell’anonimo e omofono Michael “Jefferson”; ma siamo sempre lì: gli sceneggiatori di Hollywood la sanno lunga. Noto invece una questione storica di portata più ampia: nell’eterno e periodico ritorno della musica, della moda e del costume anni ottanta Michael Jackson è sempre rimasto un po’ a lato, per non dire tralasciato. Credo che in tutto ciò ci sia una generale cattiva coscienza di chi aveva idolatrato una star in seguito molto chiacchierata, e che, come le famiglie Robson e Safechuck, si era fatto vincere da quel miraggio di grandezza.

 

 

Il prossimo anno, valido ogni anno (scritto qualche anno fa)

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Il prossimo anno troverete lavoro e non avrete più tempo libero.
Il prossimo anno morirete di caldo ma anche di freddo.
Il prossimo anno pioverà sempre, ma solo durante le ferie.
Il prossimo anno c’è la crisi.
Il prossimo anno perderete il lavoro. 
Il prossimo anno verrete mollati dalla morosa perché disoccupati.
Il prossimo anno vi sentirete soli e prenderete un cane. E il cane cagherà in casa.
Il prossimo anno è amore.
Il prossimo anno troverete un’altra morosa e spenderete un mucchio di soldi per il cazzo.
Il prossimo anno farete un sacco di buoni propositi per l’anno dopo il prossimo anno.
Il prossimo anno morirà tanta gente famosa, sicuramente i vostri preferiti anche se non lo sapevate. Ciao Sic! RIP Madiba.
Mitico Vasco.
Il prossimo anno resterà meno da vivere anche a voi.
Il prossimo anno studierete un sacco, che fosse bello se prenderei la laurea.
Il prossimo anno farete sport e vi farà malissimo.
Il prossimo anno smetterete di fumare.
Il prossimo anno farete la dieta Dukan e riprenderete a fumare.
Il prossimo anno dormirete solo con le benzodiazepine.
No, non le passa più la mutua.
Il prossimo anno la polizia postale vi chiuderà Pornhub, Youjizz e tutti gli altri.
Il vostro IP ce l’hanno già dall’anno scorso.

Non fatevi illusioni, Il prossimo anno.