SanPa ed il Trolley problem

Qualche anno addietro mi sono imbattuto nel servizio finale di una trasmissione d’inchiesta del 1980 intitolata Eroina SpA, a cura di Giuseppe Marrazzo detto Joe, giornalista temerario (leggere: millenovecentottanta, mafia) e un po’ sopra le righe, peraltro padre dello sciagurato Piero.

Un video crudo, fatto di adolescenti o poco più che vagano per il centro di Verona di modo da svoltare i due o tre schizzi della giornata. Per nulla aggressivi, abbastanza disperati e quasi timidi spiegano al giornalista la piccola economia dello spaccio per far saltar fuori una dose in più, ma anche il risentimento per esservi finiti dentro a questa storia della tossicodipendenza. “No stemo darghe e colpe aea fameja, se a semo cercada noialtri”. Joe, che se la prende davvero a cuore, dapprima si schifa ma in seguito, più volte, praticamente li abbraccia. Poi sporcizia varia, zombie che vanno e vengono e lunga soggettiva finale sul braccio di un tizio che si fa una pera. Il tutto attorno all’antico pozzo di una piazzetta; un pezzo di quello che oggi chiamiamo con venerazione da wannabe centro storico e ci fa venire in mente un salotto bene.

Per quanto mi riguarda l’accento veneto conferiva a quei ragazzi una certa tridimensionalità – ciascuno è toccato maggiormente da quel che conosce – scatenandomi la domanda se alla fine siano più le scelte consapevoli o il caso a far sì che in certi periodi della vita ci si trovi a frequentare territori pericolosi, ma senza in ultimo – diciamo così – prendervi residenza. Una domanda retorica e nondimeno senza risposta, tanto da renderla angosciante e fascinosa allo stesso tempo (come sa bene Nicola Lagioia che vi ha ritagliato sopra La città dei vivi).

Guardando SanPa, la prima docuserie italiana di Netflix, quel servizio è la prima cosa che mi è venuta in mente. Per l’ovvia comunanza del tema, ma soprattutto per la capacità di dar conto di cosa fosse quel problema ancor prima che a qualche istituzione venisse in mente un cazzo di modo, nella pratica, di gestirlo.

Gli inizi – romantici per definizione – raccontano di un Muccioli intraprendente. Un figlio della borghesia agraria riminese che prova alcune sortite nel turismo e poi nell’allevamento, lì dove i suoceri hanno regalato a lui e alla moglie un’azienda agricola. San Patrignano appunto. Poi incursioni nello spiritismo con qualche amico e la coda di queste esperienze che si trascina fino alla fondazione di una delle prime comunità di recupero per tossicodipendenti in Italia. Nessuno l’ha notato, ma quei suoi baffoni originali un rimando a Gurdjieff e all’esoterismo pur lo suggerivano. Niente di troppo strano, alla fine. Basti pensare, ad esempio, che una parte del business di Scientology risiede tutt’ora nel recupero dalle droghe, e la loro prima comunità italiana “Narconon” nasce nel 1981. Mentre “Saman” di Mauro Rostagno, passato da Lotta Continua agli insegnamenti di Bhagwan Shree Rajneesh (più tardi detto Osho), viene fondata già un anno prima: con la cronologia, ma anche in qualche modo con gli interessi – e stiamo tralasciando i preti – siamo lì. Né può del resto stupire che il carattere settario aleggi fastidiosamente in alcune testimonianze su SanPa.

L’incontro fortunato avviene con Gian Marco Moratti, il quale diverrà sin da subito, per quanto si capisce, il vero sponsor economico di tutta l’impresa. Ma il dominus resterà sempre lui: Vincenzo Muccioli. Personaggio autoritario ma indubbiamente autorevole lì dentro; carismatico, magnetico e paterno. Ma anche uno che lancia strali contro la psicologia pur non essendo mai riuscito a prendere un diploma al liceo. “Vincenzo era la terapia” dice uno degli ex ospiti, e questa terapia era fatta di abbracci e di schiaffoni: efficace per chi non aveva ricevuto abbastanza degli uni o degli altri. Ma era fatta anche di catene.

E proprio da queste catene si originerà il primo processo contro di lui ed i suoi collaboratori dei primi tempi, per sequestro di persona. Una ragazza scapperà e andrà dritta dai Carabinieri di Forlì a dire che alcuni ragazzi vengono tenuti coi ceppi alle caviglie all’interno di baracche. Di fatto un “rimedio” per i casi difficili. Di qui la carcerazione preventiva di Muccioli e la successiva liberazione vincolata all’impegno di non ripetere quelle pratiche; impegno che, manco a dirlo, verrà disatteso. Attorno al processo prenderà forma il solito circo Barnum della comunicazione: i giornali, le televisioni, alcuni celebri testimoni della difesa (che avevano un figlio nella comunità), le madri disperate che guardano a Vincenzo come al Messia, Red Ronnie autoproclamato “soldato di San Patrignano” (vedi i soldati di Cristo dell’Opus Dei) e i coniugi Moratti che forse trovano in quella battaglia un senso alle loro esistenze – tanto da apparire come i primi adepti di un nuovo credo. E ovviamente la polarizzazione delle opinioni tra Guelfi e Ghibellini in un’Italia che pur priva di Twitter era già in grado di dare nelle semplificazioni il peggio di sé.

Notevolissimo e sconcertante l’intervento di Paolo Villaggio – e si badi che stiamo parlando di un genio – che dirà delle sberle di Muccioli come “date da mani sante”, “quelle sberle che non abbiamo dato noi padri progressisti”. Villaggio, ovviamente, aveva anch’egli un figlio a SanPa.

Poi la fama di Muccioli che va alle stelle, la comunità che cresce in modo ipertrofico e la conseguente cessione di potere – e di metodi – ai collaboratori più vicini, tutti ex tossici. Finché non ci scapperà il morto, con tanto di occultamento di cadavere, ed un conseguente nuovo processo. Nel frattempo alcuni suicidi tra gli ospiti, l’irrompere dell’AIDS e di qualche faida interna alla comunità. Ma in cotanta confusione lo stesso Vincenzo verrà a mancare, a causa di una malattia mai chiarita ma molto più che adombrata come AIDS.

Ora, alcune questioni possibili a me pare siano: come giudicare chi ha delle responsabilità dirette nel salvataggio di molte vite, ma parimenti sembra averne per almeno una morte? Quanto contano le intenzioni – il fare del bene, ma anche la fama – e quanto contano i risultati – il conteggio dei successi e dei fallimenti? E per fare del bene – mettiamo – è giusto andare contro delle leggi che pur sono giuste, che dicono ad esempio di non sequestrare e di non rapire (ad esempio chi scappava dalla comunità) come era in uso fare a San Patrignano?

Nell’ambito della filosofia analitica americana è stato creato un celebre esperimento mentale, che va sotto il nome di trolley problem, la cui formulazione migliore è pressappoco questa: immagina che un carrello ferroviario stia andando ad investire cinque persone bloccate sui binari; di fianco a te c’è un grassone che se lo spingi sotto il carrello finirà per fermarlo; in tal caso egli morirebbe ma le altre persone si salverebbero; che fai? Spoiler: non c’è soluzione. O meglio, se l’etica è il tentativo razionale di vivere bene, qui la scelta del giusto è davvero irrisolvibile. È ingiusto attivarsi in prima persona per uccidere un uomo incolpevole, ma la cosa inquietante è che è ingiusto persino non fare niente e lasciarne morire cinque.

(Devo dire però che la soluzione più convincente me l’ha fornita un’amica insegnante, che aveva proposto il dilemma in forma di gioco ad una classe delle scuole medie; un ragazzino – russo, manco a dirlo – aveva risposto “mi ci butto io: non li salverò ma almeno poi non mi sento in colpa”)

Insomma anche la vicenda di SanPa, alla fine, sembra avere dei tratti che sono essenzialmente inestricabili. E qui, come in altre produzioni, sta il merito di Netflix: guardare le cose dall’alto, da lato e dall’interno, ma senza mai emettere un giudizio. Non accontentarsi di una logica binaria per cui è tutto o bianco o nero, ma proporre piuttosto un’infinita scala di grigi all’interno dei quali far muovere lo spettatore. “Di ciò di cui non si può parlare è meglio tacere” scriveva il primo Wittgenstein. Ma invece no: a guardarci dentro se ne ricavano delle ottime docuserie.